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> CARLO RUBBIA E L'AMBIENTE, conosciamo meglio Carlo Rubbia
 
Marco
Inviato il: Mercoledì, 10-Gen-2007, 03:37
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Parla il premio Nobel: "I governi investano sul serio"
"Ma gli Usa non abbandoneranno il petrolio"
La sfida di Rubbia
"Il futuro è nel Sole"

dal nostro inviatoEMILIO PIERVINCENZI



BRUXELLES - Professor Rubbia, lei crede a questa rivoluzione?
"Ci credo fermamente. Ma anche i governi ci devono credere. E questo significa investire, investire molto nella ricerca. Le do un dato che a me pare significativo: nel mondo solo lo 0,9 per cento del totale del denaro investito sulla ricerca è dedicato all'energia, intorno al 13 per cento si spende per i computers e per i farmaci. Peggio fa solo la ricerca sul tabacco e sulle bevande, con lo 0,8 per cento. Ha capito bene: tabacco e bevande. Se la situazione resta questa la rivoluzione dell'idrogeno non arriverà tanto facilmente e rapidamente...".
Carlo Rubbia fa parte del board del Gruppo di alto livello chiamato a studiare e a proporre alla Commissione europea una strategia sull'idrogeno e le celle a combustibile. Diciannove cervelli europei, divisi fra enti pubblici e grandi aziende private (Shell, Rolls-Royce, Renault, Daimler-Chrysler, Siemens, Solvay eccetera), per produrre in sei mesi di lavoro un opuscolo di quattordici pagine che disegna "il nostro futuro". Rubbia è il presidente dell'Enea (Ente nazionale energia e ambiente), è un premio Nobel (1984, fisica), un fine scienziato che conserva il gusto della provocazione.


Ma ora, professore, qualche soldo arriva: 2,1 miliardi di euro non sono pochi.
"Ho ascoltato con attenzione gli interventi di Prodi, della de Palacio, di Busquin e dell'americano Abraham. Mi hanno soddisfatto, ora ho l'impressione che la ricerca sull'idrogeno sia veramente presa sul serio. Va soprattutto sottolineata la complementarietà politica che guiderà la ricerca: da un lato gli Stati Uniti che, mi sembra chiaro, non hanno alcuna intenzione di abbandonare il loro petrolio e il loro gas ma scelgono di usarli per produrre idrogeno e investendo in tecnologie che puntano alla cattura e poi al sequestro della CO2 prodotta; dall'altro l'Europa, che ha una concezione - come dire - più pensierosa e ambientalista del problema e tende ad arrivare alla produzione di idrogeno passando soprattutto per le fonti energetiche rinnovabili, come vento e sole, senza emissione di CO2. Si tratta di filosofie diverse e di situazioni economico-energetiche diverse. Ma quello che conta è che entrambi facciano ricerca per arrivare a una produzione di idrogeno a costi sopportabili".

Lei a quale concezione si sente più vicino?
"Io credo che estrarre idrogeno dal gas o dal petrolio e poi imprigionare la CO2 sia una cosa né carne né pesce".

Dunque propende per la via europea all'idrogeno?
"Io credo nel sole. Paesi come Italia, Grecia, Portogallo, Spagna devono credere nelle tecnologie legate al sole che danno sistemi ad alta efficienza, intorno al 50 per cento. Ci sono problemi, è chiaro, e tocca alla tecnologia superarli: si deve ad esempio ovviare al tasso di variabilità dato dalle giornate senza sole. Ma questo è un limite che non vale, ad esempio, in territori desertici come il Sahara".

Torniamo all'idrogeno professore.
"E al sole, le due cose sono intrecciate. Abbiamo sviluppato una nuova tecnologia che si fonda sugli specchi solari. Una parabola a specchio di 13,2 metri quadrati raccoglie e converge i raggi solari, la temperatura raggiunge anche i 1.000 centigradi, poi si posiziona su un'auto che ha le celle a combustibile con all'interno una speciale membrana, ed ecco che produciamo idrogeno. Faccio notare che 13,2 metri quadrati è lo spazio occupato da un'auto in sosta, quindi basterebbe costruire parcheggi a specchi solari. Non è anche questa una via promettente che porta all'idrogeno?".

Di strade che portano verso il paradiso idrogeno ce ne sono fin troppe, a volte si ha la sensazione che ci troviamo di fronte a un gioco per scienziati o a una manovra escogitata da politici per catturare consenso. Finora solo l'Islanda, una terra unica in quanto a risorse energetiche e a distribuzione della popolazione, ha fatto realmente qualcosa di concreto inaugurando il suo distributore pubblico di idrogeno a Reykjavik.
"Non si tratta affatto di un gioco. I numeri sono eloquenti e fanno capire perché l'incontro di Bruxelles è una tappa di avvicinamento importante alla soluzione del problema: oggi per produrre energia si consumano 75 miliardi di barili di petrolio, nel 2010 i barili diventeranno 96 miliardi, nel 2020 saranno 115 miliardi. Le emissioni di anidride carbonica nel 2020 aumenteranno del 60 per cento. Il futuro del mondo è appeso a tre possibilità: produrre idrogeno da carbone e olio e catturare la CO2 emessa, diciamo la via americana; la risorsa nucleare, con particolare attenzione alla fusione anche se la strada da percorrere è ancora molto lunga; le fonti energetiche alternative, tra cui le rinnovabili. Questa è la situazione. E le sembra un gioco?".
(17 giugno 2003)

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IL RUBBIA PENSIERO SULLE SCORIE NUCLEARI

L'ERA NUCLEARE
di Carlo Rubbia

L'era nucleare ha inizio il 2 dicembre 1942, quando Enrico Fermi riesce a innescare la prima reazione a catena controllata con la pila atomica C.P.1 - Chicago Pile Number One - da lui costruita in una palestra dell'Università della capitale dell'Illinois. In quel luogo, diventato un campo di basket, non c'è niente, neanche una targa a ricordo dell'evento storico così determinante per le sorti dell'umanità. La pila di Fermi non era molto diversa da un moderno reattore a grafite (sostanza costituita di carbonio quasi puro) come quello di Chernobyl: ancora oggi la tecnologia nucleare vive sostanzialmente di rendita e sfrutta quel modello al quale sono state apportate solo delle varianti.
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omissis......
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Si apre a questo punto grave problema dell'eliminazione dei rifiuti radioattivi. Con vari metodi sono inceneriti, triturati, macinati, pressati, vetrificati e inglobati in fusti impermeabili a loro volta disposti in recipienti di acciaio inossidabile, veri e propri sarcofaghi in miniatura.
Queste "vergogne" dell'energia nucleare vengono nascoste nelle profondità sotterranee e marine. Non abbiamo la minima idea di quello che potrebbe succedere dei fusti con tonnellate di sostanze radioattive che abbiamo già seppellito e di quelli che aspettano di esserlo. Ci liberiamo di un problema passandolo in eredità alle generazioni future, perché queste scorie saranno attive per millenni.
La sicurezza assoluta non esiste neppure in quest'ultimo stadio del ciclo nucleare. I cimiteri radioattivi possono essere violati da terremoti, bombardamenti, atti di sabotaggio. Malgrado tutte le precauzioni tecnologiche, lo spessore e la resistenza dei materiali in cui questi rifiuti della fissione sono sigillati, la radioattività può, in condizioni estreme, sprigionarsi in qualche misura, soprattutto dai fusti calati nei fondali marini. Si sono trovate tracce di cesio e di plutonio e altri radioisotopi nella fauna e nella flora dei mari più usati come cimiteri nucleari. Neppure il deposito sotterraneo, a centinaia di metri di profondità può essere ritenuto secondo me, completamente sicuro. Sotto la pressione delle rocce, a migliaia di anni da oggi, dimenticate dalle generazioni a venire, le scorie potrebbero spezzarsi o essere assorbite da un cambiamento geologico che trasformi una zona da secca in umida, entrare quindi nelle acque e andare lontano a contaminare l'uomo attraverso la catena alimentare. A mio parere queste scorie rappresentano delle bombe ritardate. Le nascondiamo pensando che non ci saremo per risponderne personalmente.


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Messaggio modificato da Marco il Mercoledì, 10-Gen-2007, 03:49
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